Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Commette violazione degli obblighi di assistenza familiare “chiunque, abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge“ (art. 570 c.p.).


L’art. 570 c.p. è collocato all’interno dell’undicesimo titolo del secondo libro del codice penale, titolo dedicato ai delitti contro la famiglia ed, in particolare, nel capo quarto, intitolato “dei delitti contro l’assistenza familiare” e prende in considerazione tre diverse condotte delittuose:

1) l’abbandono del domicilio domestico o l’assunzione di altra condotta contraria all’ordine e alla morale delle famiglie, condotte che determinano la violazione dell’obbligo di assistenza inerente alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge (art. 570, co. 1);

2) la malversazione o dilapidazione di beni del figlio minore o del coniuge da parte del genitore o dell’altro coniuge (art. 570, co. 2, n. 1 c.p.);

3) la mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza a discendenti minorenni, inabili al lavoro, agli ascendenti ovvero al coniuge (art. 570, co. 2, n. 2 c.p.).

Tali condotte, pur essendo autonome tra loro, hanno quale comune denominatore l’esigenza di tutelare l’interesse di un soggetto ad essere assistito dai propri familiari, sia dal punto di vista fisico ed economico, sia dal punto di vista morale.

La dottrina prevalente, facendo leva sulla genericità della formula legislativa, ha ritenuto che le espressioni utilizzate dal legislatore determinano una scissione della norma in due parti: il primo comma, nel quale si prende in considerazione la violazione di doveri quasi prevalentemente morali, ed il secondo comma ove, invece, si tutelano dei valori esclusivamente economici.

Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all'art. 570 c.p. consta in realtà di tre distinte figure delittuose, poste in rapporto di reciproca autonomia, a difesa dell'istituzione matrimoniale e dei vincoli di solidarietà che l'ordinamento riconnette ad essa.

Art. 570 comma 1

In particolare, il primo comma dell'art. 570 appare la fattispecie più controversa e anche, probabilmente, la meno applicata. La norma presidia, infatti, un“generico dovere di assistenza”nei confronti di coniuge e figli minori, colpendo colui o colei che‘abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge'.

Art. 570 comma 2

Meno problematiche appaiono, invece, l'interpretazione e l'applicazione delle fattispecie contenute nel secondo comma – di natura più squisitamente economica – che perseguono rispettivamente:

1) Chi malversa o dilapida i beni del coniuge o figlio minore;

2)Chi fa mancare mezzi di sussistenza ai discendenti minori oppure inabili al lavoro, agli ascendenti, o al coniuge il quale non sia legalmente separato per sua (del coniuge) colpa.

È proprio la fattispecie di cui al numero 2) del secondo comma il reato più frequentemente contestato fra i tre. Riguardo a questa, si osserva innanzitutto che il numero dei potenziali soggetti attivi comprende coniugi e genitori (di figli sia legittimi che naturali, ovviamente), ma anche nonni e figli maggiorenni – visto che la norma fa riferimento agli ascendenti e discendenti. Per quel che attiene alla condotta, secondo l'opinione pressoché concorde di Dottrina e Giurisprudenza, il concetto di ‘sussistenza' andrebbe inteso nel senso di soddisfazione delle basilari esigenze di vita: perciò, non soltanto vitto e alloggio, ma anche spese di vestiario, visite mediche, istruzione etc..

Parlando invece dell'ipotesi di malversazione o dilapidazione di cui al numero 1) secondo comma, va precisato che tale condotta è integrata non già da un singolo atto, bensì da un comportamento reiterato nel tempo.

Cosa si intende per mezzi di sussistenza?

Affinché il “mancato mantenimento” possa considerarsi un reato occorre che siano venuti a mancare ai familiari i cosiddetti mezzi di sussistenza. Con questa espressione si intende tutto ciò che è necessario per soddisfare le esigenze di vita primarie(abitazione, cibo, vestiario, ecc.). Pertanto la responsabilità penale non è legata in modo automatico al mancato versamento del mantenimento, ma dipende esclusivamente dal verificarsi di uno stato di bisogno dell’avente diritto. Se,ad esempio, l’assegno di mantenimento, stabilito dal giudice, sia dovuto al solo scopo di far mantenere un tenore di vita agiato al coniuge che abbia già una propria autonomia di reddito, in caso di mancato versamento dell’assegno quest’ultimo non si troverà in uno stato di bisogno (si pensi, ad esempio, al caso di un marito con una attività imprenditoriale consolidata e di una moglie insegnante).

Ha importanza che l’imputato abbia o meno disponibilità di denaro?

Se il soggetto tenuto al mantenimento non ha un reddito non può essere responsabile penalmente per la mancato mantenimento. Questo, tuttavia, si verifica solo quando l’indisponibilità di denaro:

  • si estenda all’intero periodo di tempo in cui l’obbligato è stato inadempiente nei confronti dei familiari;
  • sia incolpevole: l’obbligato, cioè, non deve avere responsabilità circa la sua incapacità a soddisfare i bisogni essenziali di vita degli aventi diritto (non sarebbe così, per esempio, se egli si fosse dimesso da un posto di lavoro).
  • Ciò comporta che il giudice, durante il giudizio, dovrà verificare se lo stato di indigenza dell’imputato sia reale o anche solo indotto allo scopo di sottrarsi all’obbligo del mantenimento. Si pensi al caso in cui l’imputato si procuri – in accordo col datore di lavoro – un formale stato di disoccupazione, anche se – di fatto – egli continui a lavorare. Quanto rileva la volontà dell’imputato di commettere il reato? È difficile che il soggetto subisca una condanna nel momento in cui riesca a dar prova di aver commesso la violazione in modo incolpevole e involontario come, ad esempio, nel caso in cui abbia perso il posto di lavoro e abbia cercato in tutti i modi una nuova occupazione, anche non rispondente alle proprie specifiche competenze. Perché poi vi sia una responsabilità penale dell’imputato, è dunque necessario che egli abbia avuto un comportamento volontario (cosiddetto “doloso”), ossia basato sulla intenzione libera e cosciente di far mancare i mezzi di sussistenza al proprio familiare. Questo, tuttavia, non esclude la possibilità di punire la violazione dell’obbligo anche nel caso in cui venga provato che l’imputato abbia previsto che, a seguito del suo comportamento (ad esempio le dimissioni), avrebbe provocato lo stato di bisogno degli aventi diritto e, tuttavia, ne abbia accettato il rischio (si parla in tal caso di dolo eventuale). Rimane, comunque, ferma la possibilità di far valere in sede civile le proprie ragioni.

    Qual’é la pena in caso di condanna?

    La pena prevista per queste ipotesi di reato è quella della reclusione fino ad un anno e la multa da € 103,00 ad € 1.032,00. Tali pene sono, di regola, alternative, ma si applicano in modo congiunto nel caso di dilapidazione dei beni e nel caso in cui il soggetto faccia mancare i mezzi di sussistenza ai familiari. Si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa tranne quando la violazione avvenga nei confronti di minori (soggetti ai quali la legge riserva una maggior tutela). La condanna del familiare per questo tipo di reato non implica perciò – contrariamente a quanto spesso si pensi – l’automatico obbligo di risarcire il familiare leso dalla violazione, ma solo costituendosi parte civile quest’ultimo potrà sperare di vedere monetizzato, a seguito del provvedimento del giudice, la somma che ritiene debba spettargli.

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